“La Rigenerazione dell’uomo nuovo”. Il messaggio di Pasqua del Vescovo Mons. Rosario Gisana

La festa di pasqua è memoriale della risurrezione di Cristo, della sua vittoria sulla morte e della magnificenza della sua signoria su tutto il creato. Lo rammenta l’apostolo in 1Cor 15,28: Dio gli ha sottomesso ogni cosa, affinché possa essere raggiunto dalle sue creature e soprattutto possa, con la sua presenza, introdursi nella vita di ciascuno di noi. L’espressione: «Dio sia tutto in tutti» è infatti emblematica. Essa lascia intendere, oltre alla discrezionalità di Dio nel relazionarsi con le sue creature, l’ineluttabile accompagnamento della sua presenza nella nostra vita. Non possiamo fare a meno di lui (cfr. Gv 15,5): del modo con cui egli provvede e dispone alle nostre necessità, dell’azione redentiva con cui sollecita il mondo, delle operazioni divine che orientano le nostre relazioni.

La supponenza, che caratterizza il nostro modo di accoglierci, provocata il più delle volte da illusorie autonomie, è sottoposta a dura prova nel momento in cui Dio torna a rivelarsi, o meglio a lasciar capire qualcosa della sua avvenuta rivelazione. Non possiamo infatti dimenticare l’affermazione dell’autore della lettera agli Ebrei, secondo la quale in Cristo si è compiuta l’ultima parola, enunciata da Dio all’umanità (cfr. Eb 1,2). Non abbiamo più bisogno di altra rivelazione, dopo l’evento dell’incarnazione, in virtù del quale è giunta a noi, in pienezza, la parola della salvezza, cioè la conoscenza Dio nella sua natura divina.

Basterebbe scorrere le pagine del vangelo, per capire le modalità dell’amore di Dio riversato nei nostri cuori attraverso lo Spirito di Gesù (cfr. Rm 5,5). Quello che più attrae, ma al contempo inquieta è il modo con cui Dio ha deciso di rivelare il suo amore: esso prende le mosse dal silenzio della morte in croce del Figlio e tende a lasciarsi mostrare nell’apertura generosa ai piccoli del regno (cfr. Mt 25,40). Il memoriale della pasqua si fonda su questa tipologia d’amore misericordioso, secondo cui la presenza di Dio si cela e si rivela a partire dai poveri. È nella relazione con questi piccoli del regno che dovremmo imparare a capire l’enigmatica espressione di Paolo: «Dio sia tutto in tutti». Essa evoca un modo di relazionarsi di Dio con noi, il suo essere sussistente in ogni cosa nel silenzio della sua presenza. L’aggettivo indefinito pâs (tutto) lascia capire il modo speciale con cui Dio si intrattiene con l’umanità: del suo silente eloquio e della sua discreta manifestazione.

Non potremo scorgere la sua presenza, se non a partire da alcune coordinate che egli, mediante Gesù di Nazareth, ha lasciato fisse nella nostra ricerca di lui: l’attenzione ai poveri, quale scelta preferenziale di vita cristiana, e l’inquietudine di porre Dio al centro della nostra esistenza. Le coordinate sono entrambe correlate (cfr. Mc 12,28-31; 1Gv 4,19-21), ma dentro un processo di esemplificazione che richiede una riflessione sulle nostre scelte di vita. Cosa vuol dire scelta di Dio, se non che ci si disponga ad essere solidali con i fratelli che sono nel bisogno – sarebbe questa una pasqua ben accetta a lui – e che ci si apra ad una scelta di vita sobria, rimarcando il valore che ha la nostra relazione con gli altri.

L’espressione paolina è straordinaria, perché rileva, in questi due aspetti della vita cristiana, il modo giusto di amare Dio, nella concretezza in un gesto correlato: l’attenzione agli altri nella loro povertà e la purificazione del nostro modo di gestire la vita. Non si tratta qui di capire, dentro un processo di cambiamento, cosa sia effettivamente più importante, ma di cogliere nella relazione con Dio la coordinazione di questi due ambiti. Rimane aperta una questione: la 2 generosità verso i poveri, se non è sollecitata da una scelta personale di vita sobria, rischia di lasciare sospeso il passaggio della redenzione. Pasqua vuol dire passaggio e l’approdo naturale, per una conversione autentica, è il modo con cui scegliamo di vivere. Si può essere solidali verso gli altri in modo formale, ovvero nell’accogliere il bisogno altrui, stimolati soltanto da un evento straordinario. La pasqua invece esige un passaggio, un cambiamento di vita radicale, seppur accidioso a causa delle nostre lentezze, ma risoluto e paziente. Non è l’amore verso i poveri che viene prima dell’amore verso Dio. La priorità sta nella consapevolezza di quello che è accaduto al momento del nostro battesimo. L’apostolo lo afferma chiaramente: «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori» (Rm 5,5), per cui, alla luce di questo dono gratuito, sentiamo il bisogno di corrispondere con la concretezza di gesti solidali. Quanto facciamo per i poveri scaturisce da una ristrutturazione della nostra vita, che mira all’essenziale e che fa della relazione il punto nevralgico del cambiamento.

Tale situazione ha un fondamento, se, avendo incontrato il Signore, permaniamo nel dialogo con lui; se accettiamo di sottoporre la nostra esistenza a conversioni che tendono a piegare il nostro uomo vecchio; se gli eventi della storia, più o meno dolorosi, riescono ad incidere sulla memoria, lasciando lo strascico di un desiderio: la nostra condizione di cristiani è quella dell’uomo nuovo, della creatura visitata dall’amore di Dio, di colui che ha accettato di compiere il passaggio del mar rosso, sfidando nella fede le molteplici incongruenze che dispongono al fallimento oppure al paradosso. È quello che speriamo, o meglio quello che dobbiamo imparare a desiderare: il paradosso che consiste nell’accettare di essere amati da Dio senza alcun merito, dando seguito alla sua esplosività. Il potenziale d’amore di Dio si riversa nella nostra vita, stimolando in noi l’edificazione di un altro spazio paradossale, altrettanto desiderato e voluto dal piano redentivo di Dio: l’amore vicendevole, quello che tra di noi diventa amore fraterno, superando invidie, gelosie e soprattutto fermando gli stimoli diabolici della chiacchera, del giudizio e della calunnia.

Questa pasqua, segnata da un evento singolare e drammatico, possa rifondare in ciascuno un proposito accetto a Dio, che richiede – non sarebbe pasqua – un passaggio deciso ed energico, finalizzato ad un cambiamento radicale: il desiderio di restare, più a lungo possibile, nella condizione dell’uomo nuovo. È nostro impegno lasciare alle spalle quella realtà obsoleta a cui, purtroppo, siamo troppo attaccati e della quale reputiamo di non poter fare a meno. L’uomo vecchio, che obnubila la nostra vera condizione di creature somiglianti a Dio, in tutto e in particolare in quello che lo caratterizza nella sua natura di bontà, dispone ad uno stato relazionale, fallace, ingannevole e illusorio. Dovremmo persuaderci che, dal momento in cui abbiamo incontrato Gesù di Nazareth e accolto il suo vangelo, si è avviato in noi un terapeutico risveglio che tende a destare la nostra consapevolezza di creature, amate da Dio: un risveglio importante che ha pure finalità missionarie.

Tutti infatti dovrebbero essere a conoscenza della realtà dell’uomo nuovo, poiché, seppur essa è legata al dono battesimale, è una prospettiva che Dio ha iscritto nel cuore dell’uomo, al di là delle appartenenze confessionali. Coloro che hanno conosciuto questa realtà nuova, attraverso Cristo, hanno il compito della testimonianza, annunciando con gesti equivalenti quello che di fatto è la natura umana. Essa è sì ricettacolo della grazia divina, ma, in virtù dell’atto creativo, è l’unica condizione possibile che manifesta, in senso relazionale, la natura divina. Lo spiega l’apostolo, esortando a compiere volitivamente questo passaggio: «Vi siete 3 svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza, ad immagine di Colui che lo ha creato» (Col 3,9).

È interessante quello che dice Paolo. L’uomo vecchio è una realtà che, a causa del peccato, ci appartiene, ma, in forza dell’amore di Dio, rivelatosi nel dono di Cristo sulla croce, rimarrebbe in noi come una vecchia ferita rimarginata, la quale ci consente di rammentare quello che eravamo e di fissare quello che siamo, accettando il passaggio della pasqua. Spogliarsi dell’uomo vecchio, rigettando le azioni tormentose del nostro peccato, significa non soltanto imparare a sentire disgusto per le nostre lontananze, ma soprattutto a scorgere nella bellezza della croce il dono più grande che è stato fatto all’umanità dopo la creazione: la scoperta di quello che essa era con Dio e della possibilità di perpetuarne la nuova condizione.

L’uomo nuovo non è una meta da perseguire, ma una realtà presente nella nostra umanità decaduta. Esso si rivela nel modo con cui percepiamo il desiderio di conoscenza, la cosiddetta «coscienza e intelligenza spirituale», e nel modo con cui ci relazioniamo con gli altri, lasciando in loro i segni della giustizia di pasqua (cfr. 2Cor 5,21). Rivestire l’uomo nuovo, che è dono di Cristo nel battesimo, espressione della sua donazione sulla croce, è un impegno che siamo chiamati ad assumere, sapendo che ogni tentativo è un piccolo passo avanti nella definitiva costituzione della nostra creaturalità. È chiaro che la crescita dell’uomo nuovo in noi non si può commisurare con il metro del nostro merito personale. Tale condizione resta sempre un dono che deve interfacciarsi con una gestualità che evoca la nostra retta intenzione di autentica e quotidiana adesione al vangelo. L’uomo nuovo è frutto del «sacrificio inaudito del Padre, che ci ha sacrificato suo Figlio, le sofferenze inaudite subite dal Figlio per la nostra salvezza, al fine di rivestirci di questa creatura nuova, perché in essa vivessimo davanti a Dio in Cristo» (Matta el Meskin).

Quello che possiamo fare è solo di prendere coscienza, dal momento in cui abbiamo deciso di stare nella sequela del vangelo, della nostra partecipazione ad un dono incomparabile, di cui – dobbiamo ammettere – non siamo in grado di cogliere, con la nostra intelligenza, il suo grande valore. L’impegno potrà forse apparire minimo, ma coinvolge la nostra consapevolezza in un duplice fronte: il dono scaturisce dal sacrificio di Gesù sulla croce ed è offerto a ciascuno per rimpostare la nostra vita relazionale alla luce della pasqua. Nella misura in cui accettiamo di passare quotidianamente dalla morte alla vita, mediante gesti che si raffrontano, per quanto è possibile, con l’autodonazione di Gesù, la realtà dell’uomo nuovo diventa sempre più quella veste splendente che conferma la nostra partecipazione alle nozze dell’agnello (cfr. Mt 22,11- 14; Ap 19,6-9).

✠ Rosario Gisana