“Oltre”, un inno. Una storia di vita oltre la morte

Scritto da Giovanni Manna, “Oltre” è un’opera letteraria vincitrice del Premio nazionale di Poesia e Narrativa Guido Gozzano, XV Edizione – 2014, sezione racconti.

Vuole essere un inno ad andare OLTRE, soprattutto in questo periodo così cupo, una storia di vita oltre la morte, di quel filo sottile che lega noi a chi non c’è più.

Perfino la vecchia sedia del sacrestano sembrò vibrare di emozione.

“Ciao, papà!” – a queste parole, pronunciate dal pulpito, il tempo sembrò arrestarsi.

Nella Chiesa di San Giorgio i fedeli si strinsero attorno ad un muro di silenzio assordante.

“Ciao, papà!” – ripetuto una seconda volta, in maniera ancora più flebile della prima.

A quel funerale c’era tanta gente.

“Ciao, papà!” – e poi le lacrime, a rigare il suo volto.

Giacomo Serrani, insegnante di matematica al Liceo Scientifico “Einstein”, aveva quarantasette anni ed una grande passione: la pittura. Abitava da solo, al terzo piano di un condominio nella periferia orientale di Roma. Era stato ritrovato esanime nel salotto di casa sua, in pigiama, non lontano dalla porta d’ingresso. La testa reclinata verso il basso, gli occhi sbarrati.

La casa era in perfetto ordine: la scrivania, con un paio di libri e alcuni compiti in classe da correggere; il tavolo della cucina con un vaso pieno di fiori al centro; la tv ancora accesa e un raccoglitore di plastica, accanto al divano, pieno zeppo di disegni.

Tutti firmati con una M.

Su un cavalletto, accanto alla scrivania, vi era una tela dove campeggiava lo schizzo a matita di una abitazione in aperta campagna, vicino a due alberi. Il sole era parzialmente oscurato da una nuvola capricciosa. Sulla destra, proprio accanto agli alberi, due soggetti prendevano forma: un bambino e una donna accanto a lui, presumibilmente sua madre.

Mano nella mano.

Il decesso aveva avuto luogo di notte, perché il portiere dichiarò di aver visto rincasare il Signor Serrani attorno alle ore ventidue. La mattina seguente, vista la sua assenza a scuola, dal Liceo “Einstein” avevano provato a telefonare. Nessuno aveva risposto.

L’autopsia accertò che si era trattato di un arresto cardiaco.

“Ti voglio bene!” – con quello sguardo fermo, rivolto verso la bara.  

Pochi passi. Un bacio sull’estremità del legno. Una carezza. Per l’ultima volta.

Il ritorno mesto tra i banchi della Chiesa, in un silenzio rotto solo da singhiozzi inconsolabili.

Don Luigi chiese un momento di raccoglimento.

Nessuno ebbe il coraggio di aggiungere altro. Non ce n’era bisogno.

Le esequie terminarono con l’ultimo viaggio di Giacomo verso il cimitero, sorretto da amici, colleghi di lavoro e i suoi studenti.

Poi la folla, in silenzio, si diradò.

Così come Giulia e il piccolo Matteo.

Non avevano avuto figli, Giacomo Serrani e sua moglie Luisa, impiegata come cassiera in un supermercato. Un cammino di vita insieme, un percorso a quattro piedi, una luce d’amore sempre più forte, come in una splendida giornata di sole.

Poi, un giorno, iniziò a farsi tutto buio.

Prendere in mano il cellulare di Luisa si era rivelato più letale di un fendente in pieno volto.

La curiosità ingenua e spensierata di un marito. Una e-mail, più atroce di un pugno. Poi un’altra.

Lo stupore, l’incredulità. Altri messaggi, alcune fotografie. Una verità che ti lascia pietrificato.

Apparve così una terza persona, un fantasma in carne ed ossa gettato lì, nella tua vita.

Luisa aveva provato a smentire. Per un paio di giorni scese il gelo tra i due, prima della sua confessione. Aveva una relazione, da alcuni mesi, con un giornalista inglese, inviato della BBC.

Giacomo non sentì ragioni né ascoltò pentimenti di alcun tipo. Luisa, tornata a vivere con i suoi genitori, aveva provato in tutti i modi a chiedergli scusa. Andò più volte a bussare, anche nel cuore della notte, alla porta di casa Serrani, implorando in ginocchio suo marito di aprire e di ascoltarla.

Tutto inutile.  

Giacomo aveva preso la sua scelta.

E non tornò mai indietro.

Non aveva fatto nemmeno in tempo a comunicare al suo compagno la gioia di essere in dolce attesa che lui aveva fatto subito perdere le sue tracce. Solo in un secondo momento, Giulia avrebbe saputo che il papà di suo figlio era andato a vivere con un’altra donna, in Polonia.

Era la cameriera dello stesso bar in cui lui lavorava.

Matteo non conobbe suo padre. Né mai sentì la sua voce.

E nemmeno quella di sua madre.

Mai una canzone, il suono del clacson, la voce della maestra, il ruggito di un leone o gli scherzi di un clown al circo. Un applauso, il cinguettio degli uccelli, un rimprovero, lo scorrere dell’acqua nella doccia o il suono del citofono.

Niente di tutto questo.

Matteo era sordo sin dalla nascita.

Percepiva bene però tutto l’amore di sua mamma e dei nonni.

Questo però lo aiutava ben poco a superare il mutismo con cui conviveva.

I disegni, per lui, erano la forma più diretta di comunicazione. Raccontavano i sogni, le paure, i passi incerti della sua crescita e tutti i problemi e le gioie di un bambino di otto anni e mezzo.

Comunicava a suon di matita.

Aveva cinque anni appena compiuti, la prima volta che prese in mano dei colori e un foglio. Realizzò qualcosa che assomigliava vagamente ad un arcobaleno, sgargiante di colori. Al centro, una palla rotonda e gialla da cui partivano strisce di luce intermittenti.

Corse da sua madre, regalandole un’emozione indescrivibile.

Da quel momento, ogni giorno Matteo realizzava almeno un disegno.

I soggetti erano puntualmente diversi: la spiaggia con gli ombrelloni, la sua classe, un aereo tra le nuvole, un cagnolino col suo padrone.

La maestra Katia, la sua preferita, gli aveva indicato di apporre una M su ognuno di questi.

Matteo, il giorno prima dell’inizio delle vacanze natalizie, le aveva regalato un disegno, il cui contenuto Katia non tardò a comunicare alla mamma. C’era un uomo vicino ad una donna probabilmente più giovane d’età e con i capelli lunghi. E poi un bimbo. Proprio in mezzo.

Giulia le aveva allora confidato, in tutta risposta, che da alcune settimane Matteo voleva recarsi, assieme a lei, a casa di un insegnante che abitava nel loro stesso condominio, due piani più giù.

Giocavano a scambiarsi dei disegni. Era il loro unico modo di comunicare.

E lei rimaneva per ore a guardarli, seduta sul divano accanto a loro.

Matteo vedeva negli occhi di Giacomo quelli di un papà.

Nei colori di quelle creazioni, le emozioni di un genitore.

Nei suoi gesti, un modello da seguire.

Giulia confidò alla maestra che Matteo era entusiasta di vedere quest’uomo disegnare; era felice di apprendere da lui sempre qualcosa di nuovo e giocare con i colori e con la fantasia. Condivise con lei il ricordo di quel giorno in cui l’ascensore del condominio era inutilizzabile per colpa di un guasto e, assieme a suo figlio, avevano dovuto salire a piedi. Cinque piani!

Con due buste della spesa e una cassa di acqua.

Matteo, un po’ per dispetto e un po’ per gioco, si era messo a suonare i campanelli delle abitazioni che vedeva praticamente per la prima volta in vita sua, abituato com’era ad usare l’ascensore.

Gli veniva facile divincolarsi da sua madre, intenta a portare a casa la spesa. Giulia lo prendeva per mano in modo deciso, facendogli capire che non era giusto creare disturbo. Qualcuno aprì la porta.

Una signora, sulla settantina, al secondo piano, arrivò anche a spazientirsi.

Anche al terzo piano Matteo bussò più e più volte.

Aprì la porta un uomo con un enorme grembiule variopinto, con le mani più colorate di un arcobaleno.

Giulia, col fiatone, si scusò a nome del figlio. Esausta.

Lui non fece nemmeno in tempo a tranquillizzarla che, più veloce di un felino, il bambino entrò dentro casa e rimase incantato da quella tela che stava prendendo forma e colore.

Giulia divenne paonazza in volto: non seppe quali espressioni aggiungere, per chiedere scusa per un simile comportamento. Il Signor Giacomo semplicemente sorrise.

Chiese al piccolo Matteo cosa ne pensasse di questo disegno.

Lui non rispose.

Non poteva rispondere.

Non aveva mai parlato, se non attraverso qualche suono indecifrabile.

Non si girò nemmeno verso il proprio interlocutore.

Giulia lo mise al corrente di tutto, ancora più imbarazzata per la situazione creatasi.

Con pochi tratti a matita su un piccolo foglio bianco, Giacomo creò un disegno semplice: un bambino che gioca in mezzo ad un campo di fiori.

Glielo diede in mano.

Lui sorrise.

E lo abbracciò.

Da quel giorno, Matteo volle andare a trovare quel signore così buono che ad ogni visita si premurava di regalargli un piccolo disegno.

A cui lui rispondeva con un altro.

Faceva caldo, quel giorno.

La Chiesa di San Giorgio era gremita.

Giulia portò suo figlio a dare l’estremo saluto a quell’uomo.

Si accomodarono al primo banco, nella navata di sinistra.

Matteo aveva realizzato cinque disegni colorati per Giacomo, quasi a sigillare un’amicizia che sarebbe rimasta eterna. Oltre la morte.

Oltre.

Percepiva, seppur filtrato dalla sua tenera età, il dolore. Per la prima volta nella sua vita.

Non sentiva nulla di ciò che Don Luigi diceva.

Ma capiva.

Uno studente del Liceo e un collega insegnante si erano avvicendati, sul pulpito, per ricordare quest’uomo scomparso prematuramente. Una persona mite, sempre disposta ad aiutare gli altri.

Un insegnante modello.

Matteo si alzò in piedi, fece pochi passi in avanti, fin sull’altare.

Prese in mano il microfono.

Fu un attimo.

Ma a Giulia sembrò eterno.

Giovanni Manna